Questo testo è stato pubblicato sulla rivista “Siamo di nuovo insieme” nel numero 95 – 96, di aprile-giugno 2020.
Era il 1968.
All’arrivo dell’estate dovevo scegliere il posto in cui avrei passato la mia prima lunga vacanza da persona libera.
La decisione non è stata per niente semplice: potevo scegliere qualsiasi paese al mondo, tranne quelli comunisti. Ma i mezzi finanziari limitati e un po’ di logica mi hanno spinto a scegliere tra Spagna e Italia. E, consultando le offerte sulla lista Oeuvres universitaire, ho deciso di andare a Roma. E per non fare le cose a metà, ho scelto un soggiorno di 15 giorni.
Sono sbarcato nella capitale italiana dopo un lungo viaggio, di circa 24h, che mi ha permesso di avanzare lungo la costa, da Genova a Roma, e iniziare così a scoprire il paesaggio marittimo transalpino. Già in treno ho notato con stupore di comprendere piuttosto bene l’italiano. Forse in una vita precedente ero stato italiano!
A Roma, il piccolo albergo che avevo scelto tra quelli proposto da Oeuvres universitaire, si trovava proprio nel centro della città. In realtà, la „Pensione del Leoncino”, come spesso accade a Roma, occupava un piano di un immobile di abitazioni della Capitale, mentre al pianoterra c’erano dei negozi, tanto di alimentari quanto d’abbigliamento. Ricordo, allo stesso modo, anche un garage all’angolo della strada, che disturbava i condomini con le sue auto parcheggiate in qualsiasi modo e che impedivano la circolazione già difficile del quartiere. I commercianti presenti qui in tutte le stagioni con la loro esposizione ambulante di merce, cui facevano pubblicità urlando a squarciagola. E se i vicini protestavano, quelli raccoglievano la loro baraonda di oggetti e ricominciavano qualche metro più avanti.
Ancora di più! Nel palazzo in cui c’era la mia pensione, un immobile esteticamente pregevole con secoli di esistenza, incontravo ogni giorno persone rispettabili, avvocati, medici o notai che uscivano vestiti elegantemente dalle pesanti porte di legno scolpito, che potevi ammirare salendo le scale di questo piccolo castello. Avevo tutto il tempo del mondo per osservarle quando salivo o scendevo le scale.
D’epoca, i meravigliosi ascensori con porte in ferro battuto come negli stabili di lusso del centro della città, si mettevano in moto solo dopo aver introdotto una moneta da 100 lire in un cassetta metallica, posta accanto alla porta e intonata alla cabina. Non so come procedessero gli inquilini permanenti dell’immobile. Credo avessero un gettone recuperabile. Ma gli studenti della pensione, per fare un po’ d’economia, aspettavano a lungo l’arrivo di un locatario. Noi non avevamo scoperto il trucco di Totò di non so quale film del dopoguerra, che aveva legato un filo in una moneta forata, e la ritirava subito indietro quando l’ascensore si muoveva.
D’altra parte la caccia al risparmio era uno sport praticato quotidianamente.
Nella nostra pensione esisteva un solo telefono, posizionato in corridoio vicino alla porta d’ingresso. Quando i locatari telefonavano alle loro famiglie, di solito in P.V.C., tutti potevano approfittare della conversazione. In tutte le lingue del mondo! E, anche se non capivo la lingua di comunicazione, indovina dal tono dell’interlocutore se assicurava alla famiglia di star bene, se si trattava di una spedizione urgente di denaro o di appianare una storia d’amore. Allora, una persona con il cuore grande e che capiva la lingua, adempiva il suo dovere d’onore e precisava per noi i punti essenziali della conversazione. Dal canto suo, il proprietario della pensione, che voleva essere certo di recuperare i costi delle chiamate, aveva attaccato sotto il telefono un piccolo annuncio in bella scrittura, in cui diceva: “Sono amabile, sono cortese, / Ma pagatemi le spese”.
“Via del Leoncino”, una stradina con appena venti numeri, si trovava nel cuore della capitale italiana, e solo una minuscola piazza chiamata “Largo Goldoni”, la separava dal “Via del Corso”. Il corso è la principale arteria di comunicazione della città, che procede in linea retta da Piazza Venezia e dal Foro, fino a Piazza del Popolo e al muro di cinta abbattuto da papa Alessandro III nel 1655, in occasione della visita a Roma della regina Christine di Svezia, per creare un passaggio più grande, Porta del Popolo.
Ho scoperto che lungo il Corso si allineano palazzi, gallerie commerciali, celebri caffè, chiese di diversi culti, cinema, edicole di giornali, fermate d’autobus, ristoranti di tutte le categorie… e naturalmente alcuni tra i più grandi alberghi del paese e innumerevoli pensioni insieme ai famosi “Bed and Breakfast” (“letto e colazione”).
Dal 1968 al 2016 il paesaggio non è cambiato per niente! Solo noi siamo invecchiati!
Puoi passare ore intere a passeggiare sul Corso, anche senza approfondire la storia di ciascun palazzo. Perché Via del Corso cristallizza sul suo percorso tutta la storia del paese, com’è scritto in un libro pubblicato di recente: “Via del Corso: una strada lunga 2000 anni”.
Sempre a Roma, durante la mia prima visita da turista solitario all’estero, ho inaugurato un metodo per scoprire diversi luoghi e che uso ancora oggi. Per prima cosa, passeggio per la città per impregnarmi della sua atmosfera generale. Poi, comincio a cercare i monumenti rappresentativi che conosco. E, in base al tempo che mi rimane, vado a visitare musei e mostre.
A Roma, nel 1968, ho passato quasi un’intera giornata solo passeggiando lungo il Corso! Per fortuna, avevo a disposizione (credevo) molto tempo di fronte a me. Ma, quando la vacanza è finita ed è arrivato il momento di tornare a Parigi, ho avuto un coup de blues. Mi sono reso conto che se per ogni capitale avessi avuto bisogno del tempo che mi è servito per Roma, non mi sarebbero bastate tre vite! Perciò, ero assicurato! Ma nessuna città al mondo è paragonabile a Roma. Neppure lontanamente!
Sono tornato a Roma decine di volte cercando di perfezionare la mia conoscenza della “Città Eterna”. È passato quasi mezzo secolo da quanto vado e torno da Roma, abitando quasi in tutti i quartieri della città. Spesso ho alloggiato in un quartiere vicino alla “Stazione Termini”, con il pretesto che fosse più semplice prendere il treno per uscire o entrare in città. Ho abitato nel vecchio quartiere francese del XVIII secolo, vicino a Trinità dei Monti. Ho abitato anche fuori Roma, in un albergo di lusso, quando i miei agenti rifiutavano di entrare nell’inferno automobilistico del centro della città, per venirmi a prendere al mattino. Ma non sono più tornato ad abitare sul Corso. Perciò, questa volta, ho deciso di ricominciare da zero! Ho scelto un hotel proprio all’inizio di Via del Corso, al numero 4.
Si trattava di nuovo di un piano in un vecchio immobile. Ma molto più in alto, vicino al tetto, la camera vicina chiamata “suite” beneficiava di una piccola terrazza in cima all’immobile, che ti permetteva di ammirare il Corso da un capo all’altro. Com’era per tutte le altre terrazze romane lì intorno, una vera istituzione nella Città Eterna. Come quelle immortale da Ettore Scola nel suo film La Terrazza, in cui erano interpreti: Ugo Tognazzi, Jean-Luis Trintignant, Marcello Mastroianni, Sergio Reggiani, Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli, Galeazzo Benti e Marie Trintignant.
Sono uscito presto per passeggiare sul Corso, come se stessi scoprendo Roma per la prima volta. Molto presto mi sono chiesto se si trattasse della stessa città che conoscevo una volta!
Naturalmente, i palazzi e le chiese non si erano mossi negli ultimi 50 anni! Ma la strada era diventata pedonale, e oggi puoi passeggiare con il naso per aria e ammirare, senza la paura di essere investito dalle auto, le loro facciate e le decorazioni. In teoria! Perché in pratica, dovevi star attento ai ciclisti, che si considerano i nuovi padroni della strada e schivano i passanti scampanellando, perché non intralcino il loro cammino.
Ma, ancora più insopportabile è la moltitudine di tutti i tipi che, senza vergogna, si piazza a mangiare sotto i portici dei palazzi, si stende al sole sui marciapiedi delle chiese, getta cartacce unte e scatole vuote ovunque, si scatta fotografie sui basamenti delle statue, con la scusa che “a Roma bisogna comportarsi come i romani!” Perché le autorità locali chiudono un occhio di fronte al proliferare dei venditori ambulanti, delle bancarelle con spiedini e salsicce arrosto che invadono i marciapiedi, di fronte ai negozi d’abbigliamento o calzature che impilano scatole vuote in piena strada, fin dal mattino, aspettando che i netturbini vengano a recuperarle… di sera!
Quanto ai negozi, non trovi altro che boutique con prodotti firmati, poiché le botteghe tradizionali sono spariti da molto tempo.
Allora, che cosa potevo fare per ritrovare la città di una volta? È semplicissimo! Basta aspettare le ore notturne per di iniziare il vagabondaggio.
È il momento in cui la folla di turisti è già a letto, spossata da un’intera giornata di cammino per la città, le strade sono libere dal traffico, i venditori di gelato o pizza hanno chiuso bottega e… tutto è calmo!
Se per caso una breve pioggia è caduta dal cielo, il marciapiede diventa lucido e riflette i colori affascinanti delle vetrine, perfino quelli dei caffè e dei negozi che hanno chiuso prima ma sembrano ancora vivi / attivi.
Sono passati cinquant’anni da quando ho passeggiato di fronte alle vetrine del Caffè Arango o del Ronzi e Singer e immaginavo che questi luoghi di memoria non potessero che essere immortali.
Questo è forse il mio più grande rimpianto quando mi trovo a Roma. Oggi, quando nel migliore dei casi, vedo i loro nomi scritti su una facciata cieca, rimpiango di aver risparmiato una banalità senza entrare a prendere almeno un affogato al caffè, ogni tanto. In realtà, è rimasto il Caffè Greco. Ma perfino nel posto in cui ho passato così tanti pomeriggi, sognando a occhi aperti, la quiete è scomparsa nel momento in cui l’indirizzo è apparso in tutte le versioni del mondo della Guide du routard.
Mi è rimasto un “singolo luogo personale di memoria”, il “34”.
Nel 1968, visto che non ero più di uno studente squattrinato, ho deciso di “rompere il salvadanaio” ed entrare almeno una volta in un buon ristorante. Perché ho scelto il “Ristorante 34” in Via Mario dei Fiori n. 34? Non me lo ricordo più!
Ma questo è il ristorante in cui ho scoperto il „Montplan” (reinterpretazione italiana del „Mont Blanc”), un dolce con crema di castagne e Chantilly. E ho appuntato sul menù del ristorante „dolce al cioccolato”, per ricordarlo in futuro.
Sono tornato al “34” dopo 48 anni! Esisteva ancora e aveva lo stesso nome. Il che è piuttosto raro in quest’ambiento. Purtroppo, il pasticcere, che nel frattempo è stato sostituito innumerevoli volte, non ha più sulla lista il “mio” dolce al cioccolato. Ma ho potuto consolarmi con dell’ottima pasta ai frutti di mare, come ne ho mangiata di rado altrove.
Ho terminato la mia serata al „Hassler – Villa Medicis”, bevendo un bicchiere di vino in compagnia di una coppia incontrata al “34”, con un’età poco maggiore della mia, quando avevo iniziato a frequentare questi posti. Ho consigliato loro di non ripetere i miei errori, passando accanto a luoghi di memoria la cui esistenza potrebbe essere più breve della loro!
Adrian Irvin ROZEI
Roma, novembre 2016